Quello che forse incuriosisce di più gli studiosi e li spinge
a tentare di decodificare la grande macchina della comunicazione è
l'uso di un linguaggio fatto di una indefinita miriade di tasselli, un
codice con molte chiavi, uno strumento complesso e affascinante. Per linguaggio
intendo il testo parlato (e di conseguenza anche lo scritto) ma anche il
linguaggio come insieme di forme percettive - uditive, cinestetiche e visuali.
Considerare il linguaggio dal punto di vista delle sue forme percettive
significa ignorare il cosiddetto significato delle parole, vale a dire
i loro referenti.
Essi appartengono ad un campo diverso dell'esperienza percettiva.
In questo senso "il linguaggio può a buona ragione essere considerato
un mezzo indispensabile al pensiero."
Ma ciò che lo rende tanto valido per pensare, non può
essere, secondo Rudolf Arnheim, il fatto di pensare in parole. Egli afferma
che ciò che rende il linguaggio uno strumento così adeguato,
deve consistere nell'aiuto fornito dalle parole al pensiero mentre esso
opera in un suo medium più appropriato, quale quello dell'immagine
visuale.
Contrariamente a ciò che generalmente si usa affermare, ovvero
che il linguaggio (questa volta inteso come facoltà linguistica)
sia una veicolo del pensiero migliore rispetto alle altre forme o ai suoni,
Rudolf Arnheim afferma che occorre porci una domanda a questo proposito.
"Il linguaggio adempie al servizio comunicativo sostanzialmente
per mezzo di proprietà inerenti al "medium" verbale in se stesso,
o funziona indirettamente, ovvero indicando i referenti delle parole o
delle proposizioni, vale a dire i fatti forniti da un "medium" interamente
diverso. Inoltre, ci occorre sapere se il linguaggio sia o meno indispensabile
per pensare?
La risposa a quest'ultima domanda è no."
Arnheim con la sua capacità di mettere in discussione un argomento che per un'intera scuola di ricercatori sarebbe potuta apparire ai limiti dell'assurdo, dai filosofi del linguaggio ai linguisti, agli strutturalisti, afferma la superiorità del medium visivo, per quanto riguarda le dimensioni percettive.
"Il medium visivo è tanto enormemente superiore perché
offre equivalenti strutturali di tutte le caratteristiche degli oggetti,
eventi e relazioni.
La varietà delle forme visuali disponibili è grande
quanto quella dei possibili suoni del linguaggio, ma quello che conta è
che esse si possono organizzare secondo patterns prontamente definibili,
di cui le forme geometriche sono l'illustrazione più tangibile.
La virtù principale del medium visuale è quella di
rappresentare le forme in uno spazio bidimensionale e tridimensionale,
in confronto con la sequenza monodimensionale del linguaggio verbale.
Questo spazio polidimensionale non soltanto offre al pensiero efficaci
modelli di oggetti fisici o di eventi, ma rappresenta pure isomorficamente
le dimensioni che occorrono al ragionamento teorico."
La storia dei linguaggi mostra che parole, che oggi non sembra
rinviino all'esperienza percettiva diretta, vi si riferivano originariamente.
Numerose fra esse sono ancora riconoscibilmente figurative.
La profondità della mente, ad esempio, in inglese è denominata
mediante una parola che contiene la radice latina fundus.
L'universale abitudine verbale riflette, ovviamente, il processo psicologico
mediante il quale i concetti che descrivono fatti "non- percettivi" derivano
da quelli percettivi.
La nozione di profondità del pensiero deriva dalla profondità
fisica; quel che più conta, la profondità non è semplicemente
una metafora conveniente per descrivere il fenomeno mentale, ma l'unico
modo possibile di concepire persino tale nozione.
La profondità mentale non è pensabile senza la consapevolezza
della profondità fisica... ovviamente i sensi non visivi contribuiscono
per la loro parte a rendere pensabili le cose non-percettive.
Infine occorre precisare che il pensiero umano non può andare
al di là dei patterns che i sensi umani gli offrono. Pertanto, il
linguaggio conferma esplicitamente l'ipotesi che il pensiero abbia luogo
nel campo dei sensi.
2.3.1. Che cosa fanno le parole per le immagini?
Sebbene non vi sia alcuna ragione per ritenere che il linguaggio sia
necessario per realizzare la percezione, le parole offrono tuttavia etichette
stabili che affidano l'esperienza sensoriale al riconoscimento di certi
tipi di fenomeni.
Ma il linguaggio fa qualche cosa di più. Gli psicologi hanno
fatto notare che le parole, dalle quali le cose sono denominate, sono categorie.
Mediante i nomi categoriali, il linguaggio è in grado di codificare
i mutamenti di classificazione cui un oggetto è sottoposto in pratica.
Il pittore Georges Braque ha osservato: Un cucchiaino da caffè
presso una tazza acquista improvvisamente una funzione diversa quando lo
metto tra la scarpa e il tallone: diventa un calzascarpe.
Un simile mutamento di funzione è accompagnato da una precisa
ristrutturazione percettiva, il manico del cucchiaio, ad esempio, si trasforma
da manico in leva.
Ma all'identità dell'oggetto, che nondimeno resta, si contrappone
la distinzione verbale tra cucchiaino da caffe e calzascarpe. Su un piano
più generale, il linguaggio contribuisce a controbilanciare una
tendenza percettiva a vedere le cose come pure forme.
Essendo stato coniato per necessità pratiche, il linguaggio
tende a suggerire categorie funzionali più che formali, e pertanto
ad andare al di là della pura apparenza. Per valutare in modo più
adeguato l'importante ruolo del linguaggio, Arhneim afferma:
" è necessario riconoscere che esso può costituire un ausilio per i veicoli primari del pensiero, i quali sono meglio, anzi immensamente meglio attrezzati di lui per rappresentare oggetti e relazioni di rilievo mediante una configurazione articolata. La funzione del linguaggio è essenzialmente conservatrice e stabilizzatrice, e pertanto tende pure, negativamente, a rendere statica ed immobile la conoscenza."
Ciò che ho tentato di affermare in altre parti della mia
ricerca, ovvero che COLORS utilizzava l'immagine come mezzo di comunicazione
del suo messaggio, dando per scontato che potesse essere più che
sufficiente viene confermato dalla teoria di Arnheim.
Può costituire infatti, una scelta precisa, evitare di utilizzare
il linguaggio scritto, il testo, per specificare e spiegare o commentare
delle immagini, dando al lettore il solo supporto di un testo didascalico
che non vuole fornire etichette categoriali funzionali all'immagine e tantomeno
contestualizzarle, semplicemente mantenere una certa trasparenza dell'informazione.
Il fatto che, ad esempio, accanto ad una immagine di un mercato vi
sia un testo didascalico che recita "mercato a Taiwan, il mercoledì
si vengono anche rane e lucertole" non compromette a nessun livello
la decodificazione percettiva dell'immagine, semmai offre al lettore curioso
uno strumento in più, puramente informativo e senza finalità
di commento, per la conoscenza.
Ritengo a questo punto importante chiarire le potenzialità dell'immagine
rispetto alle altre forme di comunicazione, chiedermi che cosa può
e che cosa non può fare meglio del linguaggio scritto o parlato.
Molti studiosi si sono dedicati e si dedicano ad analizzare le varie
funzioni del linguaggio, che resta lo strumento consacrato alla comunicazione
umana.
Tentare di descrivere un'immagine con l'uso del linguaggio, per esempio,
può avere dei vantaggi e degli svantaggi.
Se abbiamo detto che il linguaggio ha una capacità descrittiva
molto elevata è anche vero che esso si serve di universali e che
nessuna descrizione può essere mai completa.
"Non c'è limite, per principio, alla successione di domanda che potreste fare riguardo ad ogni particolare..."
La differenza tra i due linguaggi consistono nel fatto che:
"...Mentre un resoconto verbale ha bisogno di assicurarci che pretende di descrivere uno stato del mondo esistente, la rappresentazione figurativa senza titolo può riferirsi facilmente tanto ad una costruzione davvero esistente come a un'immagine della memoria, a un progetto o a una fantasia."
Il mio obiettivo è domandarmi anzitutto quali funzioni possono
essere esplicate dall'immagine visiva.
Essa è dotata di una suprema capacità di appello , ma
il suo uso a scopi espressivi è problematico; in realtà,
senza qualche ausilio esterno, non è assolutamente in grado di svolgere
una funzione analoga a quella assertiva del linguaggio.
La capacità di appello non si limita alle immagini di oggetti
precisi: anche le configurazioni astratte di forme e colori hanno il potere
di influire sulle nostre emozioni. Basta tenere gli occhi aperti per vedere
come queste potenzialità dei mezzi visivi siano sfruttate ovunque,
dal segnale rosso di pericolo al modo in l'arredamento di un ristorante
può essere studiato per creare una certa "atmosfera".
Ma basterebbe la sola immagine a esplicare la funzione comunicativa?
"Si, afferma Gombrich, a patto di accostarvisi con una certa conoscenza di abitudini e di convenzioni sociali."
In effetti ciò che tento di dimostrare nella mia tesi non consiste nel fatto che il linguaggio visivo ha valore informativo più alto del linguaggio orale o scritto, bensì che in COLORS, essendo l'obiettivo primario costituito, non dall'informare il lettore, ma dal dotarlo degli elementi e degli strumenti visivi necessari per decodificare individualmente un certo tipo di informazione, nel caso specifico l'immagine può costituire uno strumento adeguato, anche più del linguaggio.
Per spiegare quante cose tendiamo a dare per scontate quando cerchiamo
d'interpretare il messaggio trasmessoci da un'immagine, Ernst H. Gombrich
ci mostra Cave canem, un mosaico pompeiano che rappresenta un cane da guardia
intento ad abbaiare ad un presunto intruso che però non appare.
Ciò che vediamo è il cane nero in primo piano, ringhiante,
nell'atto di compiere il suo dovere.
Se appartenessimo ad una cultura diversa, il mosaico si presterebbe
a molte interpretazioni diverse da quella cha ha spinto i padroni di casa
a sistemare il mosaico davanti alla porta di casa.
Non potrebbe darsi che il proprietario volesse richiamare l'attenzione
su un cane che desiderava vendere? O forse era un veterinario?
E il mosaico non avrebbe anche potuto funzionare come insegna per un
pub chiamato "Al cane nero"?
Tutto dipende sempre da quanto già sappiamo sui suoi possibili
sensi e in ogni caso, per automatica che possa essere la nostra prima reazione
di fronte a un'immagine, la lettura non potrà mai essere passiva.
In questo senso privilegiare le culture altre nei temi discussi nei vari numeri di COLORS, mostrando immagini che spesso sconfinano nell'incredibile e spiegando come individui appartenenti a culture diverse dalle nostre possano avere i nostri stessi bisogni e le nostre emozioni può essere uno strumento in più per chiedere al lettore di leggere con attenzione le immagini che ha sotto gli occhi, valutare il valore di appello che ogni singola immagine contiene, decodificarne in prima persona il significato senza farsi trasportare dal pregiudizio.
La difficoltà che incontriamo nell'interpretare il significato
del mosaico è istruttiva nel senso che anch'essa si può esprimere
in termini di teoria della comunicazione.
Come i messaggi verbali, le immagini sono soggette a quelle fortuite
interferenze che i tecnici chiamano "rumore", e che si cercano di neutralizzare
sfruttando l'effetto di ridondanza. Contrariamente a ciò la casualità
di una corretta lettura dell'immagine è governata da tre variabili:
il codice, la didascalia e il contesto.
Si potrebbe credere che la sola didascalia basterebbe a rendere ridondanti
le altre due, non fosse che le nostre convenzioni culturali sono estremamente
flessibili.
Non c'è dubbio comunque che la parola e l'immagine, combinandosi,
accrescano le probabilità di una corretta ricostruzione dell'informazione
e ha il risultato di facilitare la memorizzazione.
Ci sono casi invece in cui il solo contesto basta a togliere ambiguità
al messaggio visivo, anche senza l'uso delle parole.
In alcuni casi la condensazione e la concentrazione su alcuni particolari
isolati dal contesto, sono usate tanto per il loro potere di appello, quanto
per l'effetto di sorpresa che sanno generare.
"L'immagine incompleta, o inattesa, crea un piccolo enigma che ci tiene sospesi per un attimo, e fa sì che ne ricordiamo, o godiamo, la soluzione, mentre la prosa di un'immagine puramente informativa passerebbe inosservata, o si dimenticherebbe subito".
Una caratteristica delle immagini utilizzate in COLORS sta proprio nell'assenza
del contesto. Spesso gli oggetti presenti nelle immagini, in particolare
nelle fotografie di Oliviero Toscani, sono rappresentati in fondi completamente
neutri e asettici, a volte anche privi di colore.
Se da una parte l'obiettivo può essere inserire un elemento
di disturbo nella decodica nell'immagine, privando il fruitore di ancorarsi
a una serie di punti di riferimento che gli permettono di collocare l'oggetto
in una situazione, dall'altra può essere presente il tentativo di
lasciare maggiore libertà possibile al lettore, offrirgli l'opportunità
di immaginare un contesto e di utilizzarlo liberamente per la propria interpretazione.
Questo è importante se si osserva il meccanismo di passaggio
da una videata all'altra nel progetto di CD-ROM da me sviluppato.
Spesso il contesto o il cambiamento di contesto di un'immagine nel
passaggio dalla versione cartacea a quella elettronica costituisce la vera
differenza d'interpretazione possibile che viene data all'immagine stessa.
Si tratta quindi di formulare una serie di possibilità alternative
di fruizione dello stesso materiale che è stato in un certo senso
constestualizzato nella versione cartacea, anche solo nel momento in cui
si è deciso di impaginare fisicamente quella determinata immagine
ad esempio, nel numero che parla di ecologia, nell'argomento cibo.
Non bisogna tuttavia, continua Gombrich, mai cedere alla tentazione di dimenticare che anche in questi casi il contesto si deve appoggiare a delle aspettative preesisitenti, fondate sulla tradizione. Se si interrompe questo legame si interrompe anche la comunicazione.
Qual'era l'obiettivo che mi ero posta all'inizio della mia ricerca?
Era comunicare?
Gli obiettivi che mi ero posta erano due.
Da una parte dimostrare come l'uso delle nuove tecnologie potesse
potenziare e migliorare gli obiettivi comunicativi di COLORS Magazine e
dall'altra dimostrare che gli obiettivi comunicativi di COLORS cartaceo
si discostavano dalle regole canoniche di comunicazione perché sceglievano
di utilizzare come strumento primario un medium visivo.
Se per interrompere la comunicazione si intende quindi interrompere
quel tipo di comunicazione a cui siamo da sempre abituati, fondato su regole
e convenzioni ben precise, quali la coerenza, la coesione, la pregnanza,
ecc... allora credo che l'obiettivo principale di COLORS Magazine e della
mia ricerca siano stati raggiunti.
Il fatto che la comunicazione sia stata interrotta è indubbio.
Per lo meno è assodato che il tipo di comunicazione proposto
ha riscontrato notevoli critiche e polemiche e che, al di là di
ogni opinione sulla bontà o sulla cattiva fede di chi la produce
e degli obiettivi per cui la produce, viene considerata di dubbio valore
informativo.
2.3.4. Il problema dell'intenzionalità
Il genere d'informazione che si estrae da un'immagine può essere
del tutto indipendente dalle intenzioni del suo autore.
Per fedele che possa essere un'immagine usata per trasmettere delle
informazioni visive, il processo selettivo rivelerà sempre un'interpretazione
da parte dell'autore nella scelta di ciò che considera importante.
Si può dire infatti che l'immagine non "riproduca" la realtà
ma la "rappresenti" attraverso alcune rarefazioni e certi mutamenti che
sono vere e proprie convenzioni culturali, per nulla innate e naturali.
Si tratta di un linguaggio che, a differenza di quello verbale-concettuale
legato a rapporti di convenzione codificati, si esprime grazie a una "naturalità"
di rappresentazione.
La naturalità di rappresentazione è però frutto
di un intervento tecnico particolarmente sofisticato e tale da provocare
profonde mutazioni sul piano dei significati.
Il soggetto del processo di significazione, cioè l'individuo
recettore, entra in rapporto una volta con il referente (l'oggetto reale),
un'altra volta con la sua immagine tecnica (la fotografia), mentre questi
ultimi due non sono rapporto fra loro.
Il passaggio dalla "forma" della realtà a quella dell'immagine,
cioè la "deformazione", sarà perciò il frutto dato
da un procedimento necessario e non eludibile per l'autore a causa delle
oggettive resistenze degli apparati tecnici, ma insieme il risultato di
un processo volontario del professionista della comunicazione, il quale
consapevole di quei filtri tecnici deformanti ma comunque inevitabili,
se ne serve in senso funzionale agli obiettivi di contenuto comunicativo
che intende veicolare.
Per dimostrarci con quanta prontezza impariamo ad adeguarci al
codice e ad accettarne le convenzioni, Ernst Gombrich ci mostra un'incisione
dell'artista francese Claude Mellan in cui una sola linea a spirale veniva
composto il viso di Cristo, utilizzando le variazioni di spessore della
linea per indicare le forme e le ombre .
In questo caso, a differenza della fotografia a colori, non abbiamo
alcuna difficoltà , contrariamente a ciò che sostiene un
famoso slogan, a distinguere tra il mezzo e il messaggio.
Dal punto di vista dell'informazione, questa distinzione è molto
importante; la fotografia a colori ci lascia sempre incerti sul valore
informativo: in essa non riusciamo a separare il codice dal contenuto.
2.3.4.1. Il mondo ottico
Mentre un resoconto verbale ha bisogno di assicurarci che pretende di descrivere uno stato del mondo esistente, la rappresentazione figurative senza titolo può riferirsi facilmente tanto ad una costruzione davvero esistente come a un'immagine della memoria, a un progetto o a una fantasia. Allo stesso modo:
"Mentre le mappe ci danno un'informazione selettiva sul mondo fisico, le immagini, come gli specchi , ci trasmettono il manifestarsi di un aspetto qualunque di quel mondo, nel modo in cui esso varia insieme alle condizioni di luce, e si può dire, perciò, che esse forniscano informazione riguardo al mondo ottico."
L'obbiettivo della macchina fotografica non fa altro che trascrivere
semplicemente i dati ottici che intervengono nell'esperienza visiva.
In altre parole traccia una mappa del mondo ottico disegnando le sensazioni
visive che vi corrispondono.
Occorre però differenziare "l'esperienza visiva" dalla "rappresentazione
visiva" per il diverso tipo di informazione che possono fornire.
Vi è infatti la tentazione di guardare al "mondo ottico" come
a qualcosa di dato.
2.3.5. La società dell'immagine
Alcuni definiscono la nostra come la civiltà dell'immagine, altre
come la civiltà della scrittura, altri hanno predicato la nascita
del villaggio globale, il ritorno ad una civiltà dell'oralità
di secondo grado promossa dalle tecnologie elettroniche. Una civiltà
certamente molto visiva, anche se ormai almeno audio-visiva, se non addirittura
multisensoriale, come promettono le sperimentazione della realtà
virtuale.
Si tende comunque a enfatizzare il peso della visione nella nostra
vita quotidiana e nello scenario del nostro futuro tecnologico.
Contro tutto questo fronte interpretativo c'è pero chi oppone
una visione straordinariamente critica e parla di civilizzazione della
cecità, di civilizzazione dell'oscuramento.
L'osservazione serrata di tutta una serie di fenomeni della società
e della tecnologia, ha portato ad esempio Paul Virilio, un urbanista francese
che si definisce dromologo, studioso della velocità, a diventare
una di queste voci critiche.
Secondo Virilio l'accelerazione di tutti i processi singolarmente,
e di tutti i processi nel loro insieme, provocata nella nostra cultura
dall'innovazione tecnologica diffusa, inducono la progressiva sostituzione
di instantanei processi di commutazione ai normali processi di comunicazione,
dove il ritmo è ancora relativamente lento.
Il tempo della commutazione è scandito dalle apparecchiature
elettroniche, il ritmo della comunicazione è determinato invece
dagli organi e dalla mente dell'uomo.
Il mondo che ci circonda appare allora come un mondo della disforia,
cioè sostanzialmente della depressione, determinata da una sostanziale
povertà della comunicazione, e addirittura da una sostanziale deprivazione
del piacere sensoriale.
E per quanto ci riguarda più direttamente, e cioè specificamente
a proposito delle immagini:
"esse sono sempre meno figure, e sempre più stimoli, attivati per fare scattare immediate reazioni, come avviene nei riflessi condizionati..."
Le immagini sembra che stiano perdendo il loro spessore, la profondità
dei loro significati possibili. Mentre una singola figura poteva essere
analizzata e interpretata per ore, ora invece le immagini si appiattiscono,
diventano materiale grezzo, semplice semilavorato, scarti, avanzi per un
continuo collage superficiale.
I dispositivi e le tecnologie elettroniche, dal canto loro, non fanno
che incrementare questa sensazione, producono un effetto complessivo di
irrealismo, generano un'illusione di dematerializzazione.
Tutto sembra avvenire per magia, in uno spazio piatto, o anche nella
profondità del virtuale, poco importa, in uno spazio comunque privo
di consistenza.
Basta porsi di fronte a un computer dotato di un software di elaborazione
grafica per rendersi conto di come si possa creare o manipolare un'immagine
e cambiarne colori, forme, significati. La domanda che mi sorge spontanea
è:
2.3.6. Ma non sarà poi quello che abbiamo sempre cercato?
Ogni società consumistico-autoritaria tende ad esigere una cultura
basata sulle immagini, secondo una logica di velocità e d'impazienza
che scandisce il ritmo disarmonico della nostra esistenza.
L'immagine destinata a un rapido consumo ben si accorda con le esigenze
volubili e insaziabili d'individui che non hanno molto tempo per soddisfare
i propri bisogni di realtà e di conoscenza; in altre parole di conoscere
il reale e di dare una realtà concreta ai propri desideri di conoscenza
(umani, scientifici, artistici).
Un tale tipo di società ha bisogno di elargire grandi qualità
di svago per stimolare il consumo e lenire le ferite prodotte da meccanismi
sociali fondati sull'ineguaglianza e sull'oppressione dell'uomo a causa
delle differenze materiali, sessuali, razziale.
E tale società ha bisogno di accumulare quantità sterminate
d'informazioni allo scopo di sfruttare la natura, di aumentare la produzione,
di mantenere la pace sociale e di fare (e giustificare) le guerre per la
sopravvivenza dell'industria degli armamenti.
La risposta ideale a tali esigenze e la maniera ideale di rafforzarle
risiedono, anche, nella duplice capacità della macchina fotografica
di soggettivare la realtà e di oggettivarla.
Le macchine fotografiche (e i loro derivati cine-televisivi) definiscono
la realtà nei due modi indispensabili al funzionamento di una società
industriale tecnologicamente avanzata: per le masse in quanto spettacolo,
e per i governanti - come strumento di controllo, di sorveglianza, di manipolazione
nei confronti dei dominati (le classi lavoratrici, gli studenti, i bambini...)
In tal modo le immagini fotografiche dei rotocalchi o quelle televisive
che portano il mondo a domicilio, in realtà trasformano e manipolano
gli eventi fino a provocarne una loro conversione in merci, in prodotti
sociali.
La società delle immagini tende come ha suggerito Susan Sontag,
"a sostituire il mutamento sociale col mutamento continuo o mistificatorio
delle immagini stesse, diffondendo l'ideologia dell'identificazione del
progresso reale col mutamento di superficie prodotto dall'estetizzazione
generalizzata del processo iconico."
Nelle società di massa la libertà di consumare una molteplicità
enorme di immagini o di prodotti viene identificata con la libertà
tout court.
L'illimitatezza della produzione e del consumo di immagini è
determinata dall'ideologa stessa di questa società, in cui la libera
scelta politica sembra essersi immiserita o ristretta al libero e indiscriminato
consumo economico, ovvero al processo del consumismo.
Una posizione similmente pessimistica viene sostenuta dal filosofo francese
Jean Baudrillard che, a partire dal 1968 scrive alcuni saggi dedicati alla
pubblicità e al rapporto esistente tra la società e la comunicazione.
Egli nei suoi scritti sembra cogliere in maniera acuta le falle del
sistema della comunicazione riconoscendo il motivo portante della decadenza
del sistema pubblicitario.
Sembra che Baudrillard voglia affermare che, se l'informazione viene
considerata merce esattamente come l'Anitra WC, qualcosa del sistema finirà
per produrre effetti devastanti.
Essi consistono in primo luogo nella sostituzione della realtà
con un suo simulacro, nell'uso della seduzione e della fascinazione e di
strategie di controllo e manipolazione del linguaggio.
La comunicazione pubblicitaria, nella quale l'informazione ha grado
zero, viene sostituita dalla comunicazione informatica, un simulacro elettronico
ancora più pericoloso e anch'esso privo di capacità informativa.
Ai tempi della réclame - afferma - il sistema della pubblicità
era il mezzo di comunicazione più potente; il significante e il
significato rimandavano concettualmente a un referente realmente esistente,
alla realtà di un oggetto o di un evento.
Questo tipo di rimando non ha più senso di esistere; ora il
referente reale si stacca sempre di più dal segno, lasciandolo libero
di fluttuare nell'immaginario collettivo, senza più obblighi se
non quello della circolazione incessante.
Il segno è svincolato completamente dall'obbligo di designare
qualcosa di reale. Ciò comporta non soltanto un radicale cambiamento
della dialettica tra significato e significante , ma anche di quella tra
mittente e destinatario della comunicazione, rendendo così sempre
più difficoltosa la trasmissione di informazioni nel processo comunicativo
e mettendo in crisi il modello di comunicazione di Roman Jakobson, che
per primo ne aveva proposto una formulazione organica.
Lo stesso Baudrillard parla di "l'implosione di senso", che aggiunge
una specifica all'emancipazione del segno.
Baudrillard nel 1968 con il volume Sistema degli oggetti, tenta sotto
l'influenza determinante sia del pensiero strutturalista di Lèvi-Strauss
che della semiologia di Saussure e Barthes, di analizzare la società
dei consumi attraverso i messaggi emessi dalle merci che la costituiscono.
Se si prova ad utilizzare questo stesso sistema per analizzare i prodotti
del mercato di oggi si intuisce ciò a cui Baudrillard si riferiva:
il significato veicolato da ogni oggetto, simbolo o segnale, invece di
esplicitarsi nella sua performance, implode in se stesso, invece di rimandare
a qualcosaltro contiene le informazioni, le trattiene nella sua stessa
espressione.
Questa affermazione mi fa balzare alla mente che Benetton usa
l' "immagine" per comunicare la sua "immagine", non i suoi prodotti. Avete
mai visto un maglione nelle ultime pubblicità Benetton?
Un quadratino verde in alto a destra di un immagine di sei metri per
tre con una piccola scritta in bianco "United Colors of Benetton" rimanda
a tutta una filosofia che non si esplicita in nessun modo se non nell'inferenza
di ogni singolo lettore.
Il sistema di comunicazione, allo stato attuale delle cose, è
in grado di produrre realtà artificiali e di suscitare nel fruitore
meccanismo inferenziali che sembrano essere naturali o spontanei ma che
in realtà sono prodotti artificialmente dai mezzi di comunicazione
stessi.
Tale processo però, secondo lo stesso Baudrillard, è
andato avanti a tal punto che attualmente l'unica esperienza possibile
per gli individui sta diventando quella del presente storico prodotto dai
media.
Si verifica una scomparsa progressiva della realtà, coperta
da una rete di segni autolegittimantisi, secondo una intercambiabilità
totale che abolisce il senso e che non permette più di distinguere
tra reale e modello di riproduzione del reale, tra realtà e artificio,
tra vero e falso.
In questa visione apocalittica di Baudrillard, i media lavorano contemporaneamente
alla produzione di senso e alla sua liquidazione, alla produzione di sociale
e alla sua neutralizzazione, almeno Il risultato è che si mette
in azione una spirale paradossale, nella quale più si produce informazione
più si aumentano l'entropia e il disordine del sociale.
Si può affermare questo per tutta la comunicazione?
Si può forse affermare che esistono alcuni tipi di comunicazione
che hanno come scopo primario quello di informare?
Di può dire che COLORS ricade tra queste forme di comunicazione?
2.3.7. L'obiettivo della comunicazione...
Sicuramente esiste un tipo di comunicazione istituzionale che ha come
obiettivo fondamentale quello di trasmettere delle informazioni.
Ma un'informazione pura e non mediata è un'informazione poco
fruibile, nel senso che rischia di essere povera, scarna, poco affascinante,
e chi conosce "Onda Verde", per esempio, sarà probabilmente d'accordo
con me.
Onda Verde è un programma radiofonico che informa i viaggiatori
sullo stato delle strade, sulle condizioni del tempo, sugli eventuali incidenti
o blocchi di vie ad alta percorribilità, autostrade, per questo
motivo lo slogan della trasmissione recita: Viaggiare informati.
L'informazione per essere fruita deve essere in qualche modo attraente,
anche se non necessariamente contraffatta.
A questo punto vado incontro a una serie di equivoci linguistici dovuti
al fatto che nel linguaggio comune vengono attribuiti dei significati diversi
alle parole.
"Truccato" in gergo (e il vocabolario riporta anche questa definizione)
significa anche "contraffatto"; si può dire infatti di un motore
a cui sono state apportate migliorie tecniche e meccaniche illegali per
aumentarne le prestazioni. Si tratta di falsificazione, alterazione.
Ma in italiano "truccato" significa anche un viso che ha subito un
procedimento estetico di abbellimento, un tipo particolare di abbellimento
che non altera le caratteristiche estetiche della persona ma ne mette in
evidenza le caratteristiche positive.
Occorre quindi trovare una mediazione, niente affatto manipolatoria,
occorre riuscire a mantenere un equilibrio tra l'esigenza di comunicare
e la necessità di attrarre l'interesse del fruitore perché
un'informazione attraente è senza dubbio più fruibile e non
per questo è "falsa".
Il pubblico d'altronde è il primo a richiedere un certo tipo
di informazione, è più esigente, richiede un prodotto pensato
apposta per lui e per le proprie esigenze di fruibilità, anche gli
studenti cominciano a non guardare più di buon occhio i manuali
pensati vent'anni fa, dove il nozionismo non lasciava spazio alla curiosità
e alle immagini, ad un modo di apprendere intelligente e stimolante.
2.3.8. ...e l'obiettivo di COLORS.
A mio parere COLORS soddisfa le esigenze di un pubblico attento.
Si preoccupa di informare senza annoiare, di rispettare il suo pubblico
usando un tipo di informazione non manipolata ma "trattata", resa fruibile
in modo interessante.
Mi si potrebbe ribattere che lo scopo fondamentale di tutta l'esperienza
editoriale COLORS non è altro che una bieca operazione di marketing,
che la rivista è stata creata con il solo scopo di rendere più
visibile la pubblicità Benetton creata da Toscani, che veniva rifiutata
in molte testate e che quindi la funziona manipolatoria dell'informazione
è quasi emblematica.
Io risponderei che non sono d'accordo. Ovvero non nego che tutto ciò
potrebbe corrispondere a realtà, non ne sono a conoscenza e in ogni
caso credo che si stia parlando di un altro livello di informazione.
Ho più volte dimostrato, attraverso l'analisi delle caratteristiche
della rivista, che si tratta di un prodotto editoriale atipico, fruibile
da un pubblico che conosce il tipo di rivista ed esce di casa per andare
a scovare un'edicola dove acquistarla.
E' un prodotto atipico già solo per questo fattore e perché
il suo pubblico è costituito da un 80% di lettori abbonati, inoltre
quasi esclusivamente stranieri.
Il suo obiettivo non è quindi attirare l'attenzione di chi non
conosce la rivista per fare in modo che la acquisti, almeno non è
un obiettivo primario, come non è primario l'obiettivo di un ritorno
economico visto che si tratta di una rivista finanziata da un grande gruppo
commerciale.
Parlo di diversi livelli d'informazione perché nel momento in
cui cerco la rivista, la compro e la sfoglio so quello che mi viene propinato.
Esattamente come quando vedo una Pubblicità Progresso in televisione
o sui giornali a proposito dell'AIDS o della droga e neanche per un momento
penso che sia una trovata del governo per fare pubblicità a se stesso:
in primo luogo perché lo so già inoltre perché lo
accetto nel momento in cui il governo si è preoccupato di diffondere
un messaggio come: "attenzione giovani, l'AIDS è un problema che
non potete trascurare".
Accetto che il governo firmi il messaggio che trasmette, accetto che
in quel modo pubblicizzi anche la sua immagine perché lo sta facendo
per una giusta causa.
Non voglio assolutamente paragonare la Pubblicità Progresso
a COLORS, anche se ritengo che i messaggi comunicati dalla rivista, indipendentemente
da chi sia "il padrone", siano positivi, istruttivi, formativi, utili per
chiunque abbia la necessità di essere informato in modo onesto.
Ci sono alcuni numeri in cui questa sensazione si avverte in modo
forte e diretto, ad esempio il numero "AIDS" o quello "WAR" ma anche "RACIES"
e "ECOLOGY".
Per esempio sul numero 4 "razze", vengono date varie definizioni dei
nomi con cui si usa chiamare certi gruppi di uomini da parte di certi altri.
I francesi del Nord Africa usano chiamare i berberi e gli arabi "goat,
caproni", i nepalesi del Tibet chiamano i tibetani "peasant, terroni",
gli inglesi che vivono in Iran si rivolgono agli iraniani con l'appellativo
"raghead, porta stracci", infine se sei un europeo il tuo nomignolo ad
Haiti potrebbe essere "cacajumu, merda gialla", gli afroamericani potrebbero
chiamarti "blue-eyed Devil, diavolo dagli acchi azzurri" e i nigeriani
dirti che sei una strega.
Qui l'obiettivo è mettere, per una volta, il lettore nella condizione
di "minoranza", fargli provare la sensazione di chi si trova nel posto
sbagliato, nel momento sbagliato, o di chi ha la pelle "del colore sbagliato".
E' un meccanismo che in retorica chiameremmo ossimoro e che viene utilizzato
con lo scopo di creare una sensazione di straniamento.
2.3.9. Di che tipo di informazione stiamo parlando?
Ogni pagina di questo numero urla in faccia ai lettori:
"Ehi, ragazzi, ascoltate: le differenze tra i popoli e gli individui sono la risorsa più preziosa che l'umanità possiede... provate ad immaginare un mondo dove tutti avessero lo stesso aspetto, e parlassero, pensassero allo stesso modo. Tutto, ma proprio tutto - sesso, film, partite di calcio - diventerebbe una noia mortale."
Il modo migliore, a loro parere, per trasmettere un'informazione come questa è dimostrarlo attraverso questi meccanismi, usando il cibo e mostrando che nel sud-est asiatico il riso si mangia con gamberetti e scarafaggi e che bruchi freschi e larve di palma sono in vendita al mercato centrale di Kinshasa, nello Zaire.
Sappiamo che ciò che differenzia la merce dagli altri beni
è il fatto che la merce è un bene economico, ovvero è
finito, esauribile e in quanto tale sottoposto a una domanda e a un'offerta
che oscillano sul mercato.
Su un articolo apparso sul mensile "Wired" dell' ottobre 1993, di Peter
Drucker e tradotto da Franco Berardi nel suo ultimo libro , si analizzano
le categorie dell'economia immateriale e si afferma con considerazioni
radicali l'obsolescenza delle categorie economiche moderne a fronte della
nuova realtà produttiva legata alle tecnologie digitali:
"La teoria economica internazionale è obsoleta. I fattori tradizionale della produzione (terra, lavoro e capitale) stanno diventando dei limiti piuttosto che delle forze trainanti. La conoscenza sta diventando il solo fattore decisivo della produzione. Essa si manifesta in due forme: la conoscenza applicata come produttività, e la conoscenza come innovazione. La conoscenza è divenuta la risorsa chiave che non conosce alcun limite geografico.."
e ancora
"...quando il fattore essenziale della produzione diverrà l'intelligenza, tutto quanto dovrà essere ripensato perché l'intelligenza non è definibile come una risorsa scarsa, ovvero come un bene economico".
Una delle conseguenze più significative di questa trasformazione sarà la perdita di significato di alcune categorie fondamentali dell'economia:
"dobbiamo ripensare l'intero concetto di proprietà intellettuale che è nata sulla parola stampata... L'unica soluzione può essere un sistema di licenza universale. In questo sistema ciascuno diviene sottoscrittore, e ciascuno deve sapere con certezza che quello che viene pubblicato può essere riprodotto. In altre parole, se non vuoi che qualcuno lo sappia, non parlarne"
In conclusione acquistare un maglione Benetton può significare
diventare sottoscrittore di una ideologia, sentirsi parte di una comunità
che condivide obiettivi comuni.
In certi casi, come in questo, afferma: "esistono merci che valgono
la pena di essere acquistate"(per i messaggi che veicola, per la "moralità",
perché si occupa dei problemi razziali, perché sostiene la
lotta contro l'AIDS, ecc..).
Si tratta di un meccanismo nuovo, un meccanismo creato appositamente
per un pubblico esperto, quasi "addetto ai lavori"; di una comunicazione
creata in un'epoca in cui, sorpassato il consumismo che aveva incoraggiato
l'accumulazione dei beni di consumo fino alla saturazione, sorpassata l'illusoria
promessa di felicità da parte delle aziende, oggi esse hanno capito
che ciò che era promettere era la qualità dei loro prodotti.
Questo meccanismo avviene attraverso l'uso della pubblicità
di qualità (e dei relativi investimenti stratosferici) e la creazione
di prodotti personalizzati.
2.3.10. Essere sensibili all'informazione
In generale credo si stia parlano di acquisire una certa sensibilità
nei confronti dell'informazione e nel capire a fondo quali sono le sue
caratteristiche e potenzialità.
Essa deve essere usata con più cura e più rispetto, per
garantire una fruizione più corretta.
Questo non significa limitarne l'utilizzo, relegarla ad una fascia
di pubblico con determinate caratteristiche sociali o possibilità
economiche, semplicemente essere coscienti che l'informazione ha un valore
e un'etica, delle regole da rispettare.
Se la macchina della pubblicità ragionasse in questi termini
avrebbe la possibilità di parlare dei prodotti in modo appetibile
e interessante senza doversi "truccare" prendendosi gioco di un pubblico
che non è disposto a porsi in termini critici davanti alla televisione
nel momento in cui si siede in poltrona per trascorrere le ultime ore di
una faticosa giornata di lavoro.